- 26 Luglio 2021
- Posted by: UFFICIO STUDI
- Categoria: Articoli e Interviste
Nel lungo discorso tenuto alla nazione a Pechino in piazza Tienanmen l’1 Luglio scorso in occasione del centenario del Partito Comunista Cinese, il presidente Xi Jinping da un lato ha celebrato il “glorioso passato” che, attuando sul piano sociale ed economico i principi della “rivoluzione socialista”, ha consentito a larga parte della popolazione di raggiungere un grado di “moderata prosperità”, dall’altro ha delineato in modo chiaro le direttive di sviluppo futuro di quello che a tutti gli effetti può essere definito come un piano alternativo al Sogno Americano. Il progetto noto come “ringiovanimento nazionale”, che ha condotto un Paese isolato, altamente centralizzato e dall’economia pianificata, a diventare in pochi decenni una potenza economica basata su un “socialismo di mercato traboccante di vitalità e aperta al resto del mondo su tutta la linea”, ha ottenuto un tale successo sul fronte interno che pare quasi naturale dal punto di vista di Xi volerlo sponsorizzare di fronte al resto del mondo civilizzato.
La ricetta è già pronta e consolidata, anche se suona quantomai ambiziosa: “come abbiamo sostenuto e sviluppato un socialismo con caratteristiche cinesi e guidato un progresso coordinato in termini materiali, politici, etico-culturali, sociali ed ecologici, noi siamo stati pionieri di una nuova e unica via cinese alla modernizzazione e creato un modello nuovo per l’avanzamento dell’umanità”.
Non si tratta a ben vedere della semplice intenzione di diffondere al resto del globo un ideale astratto come quello sotteso al capitalismo o al libero mercato, ma di esportare (e imporre col tempo) un modello per così dire olistico che coinvolge tutte le principali sfere dell’individuo e dell’ordine sociale in cui esso trova la propria collocazione. Detto in questo modo, potrebbe anche assomigliare a uno scambio equo: in realtà si tratta di un do ut des per il quale le ricadute positive non vengono tanto conseguite mediante un incremento delle attività economiche derivanti da nuove e più frequenti relazioni commerciali con la mainland Cina, quanto a seguito di un programma di investimenti (FDI, ovvero Foreign Direct Investment) mirati a far crescere determinati segmenti dei settori di questo o quel Paese a fronte di un vero e proprio controllo di gestione esercitato da chi ha elargito tali investimenti, ovvero Pechino stessa tramite società a partecipazione statale.
In sostanza, per essere inglobato nel sistema “virtuoso” uno Stato terzo – e pensiamo ai piani massivi di investimento implementati negli anni recenti da parte della Cina sia in numerosi Paesi dell’Africa sub-sahariana (vedi il grafico sopra) – è indotto a rinunciare volontariamente a una parte della propria capacità di autodeterminarsi, ma questa rinuncia può non risultare particolarmente onerosa in contesti nei quali il processo di scelta democratico è già fortemente corrotto (dall’interno o in seguito all’ingerenza di altre potenze straniere) o è comunque divenuto nel tempo alquanto farraginoso.
In cambio dell’accettazione di questa forma di tutela – che ha il merito di fluidificare i rapporti di natura economica e indirettamente anche politica- ecco che il presidente/sovrano – ormai destinato a restare in carica a vita dopo la riforma costituzionale da lui stesso fatta approvare nel Marzo 2018 – può mettere sull’altro piatto della bilancia anche il ruolo primario che la Cina ambisce sempre più a ricoprire sul piano geopolitico. Lo stesso Xi Jingping incalza ancora con ferma convinzione: “Noi manterremo il nostro impegno a promuovere pace, sviluppo, cooperazione e beneficio reciproco […], a costruire un nuovo tipo di relazioni internazionali e una nuova comunità umana con un futuro condiviso, a promuovere una crescita altamente qualitativa attraverso l’Iniziativa della Belt and Road (la Nuova Via della Seta, ndr ) […] continueremo a essere i campioni della cooperazione piuttosto che del confronto, a voler aprire invece che chiudere, e a focalizzarci su mutui benefici piuttosto che su giochi a somma-zero”. Tutto questo sempre però alla… maniera cinese, beninteso.
Stupisce che nel lungo discorso di Xi non trovi spazio alcuna annotazione relativa ai mercati finanziari interni che sono stati laggard rispetto a tutti i maggiori indici azionari di USA ed Europa dall’inizio dell’anno. Nonostante un PIL cresciuto del 18% nel Q1-2021 e dell’8% nel Q2-2021, dopo la forte decelerazione di produzione e consumi seguita allo shock pandemico (anch’esso neppure menzionato una sola volta!). O alla cosiddetta ‘guerra commerciale’ che la vede opposta agli Stati Uniti fin dai tempi burrascosi dell’Amministrazione Trump e che non sembra essersi allentata nemmeno dopo l’elezione alla Casa Bianca di Joe Biden. Nessun accenno. E’ questo un tratto distintivo che dovrebbe far trasecolare un qualsiasi osservatore occidentale. E invece per queste lacune è possibile avanzare una spiegazione, sebbene in via del tutto ipotetica.
Secondo l’antica filosofia cinese che può essere sintetizzata tramite i principi complementari di Ying (pieno) e Yang (vuoto) si può dire che ciò che non compare – o resta in ombra – ha lo stesso peso di ciò che è manifesto. Quando il leader fa riferimento al fatto che la grande nazione cinese nel suo passato “non ha mai bullizzato, oppresso, o soggiogato la gente di un qualsiasi altro Paese e mai lo farà, e al tempo stesso non permetteremo ad alcun altro Paese di fare questo a noi”, il suo pensiero sembra in palese contraddizione con quanto afferma sulla necessità assoluta di “risolvere la questione di Taiwan e di realizzare una sua completa riunificazione alla Cina […] e di intraprendere ogni risoluzione atta a contrastare qualsiasi tentativo verso la sua indipendenza”.
In realtà, leggendo tra le righe, pare di scorgere un chiaro monito, se non un avvertimento, che non può passare inosservato sul fronte occidentale: è evidente come la Cina consideri conclusa a tutti gli effetti la fase puramente espansiva della globalizzazione, e questa prospettiva collima con il progetto di trasformazione graduale da un’economia fortemente incentrata su produzione ed esportazione di beni di consumo di massa e componentistica a uso industriale a una da Paese sviluppato ‘adulto’ in cui predominano i servizi e i consumi interni. Inoltre è altresì palese che la percezione della sua recente, ferrea presa di potere su Hong Kong e la volontà di riannettersi Taiwan in un futuro prossimo abbiano già avuto e avranno un impatto a dir poco significativo sul ramificato sistema delle supply chain a livello internazionale che saranno poste a forte rischio, a meno che le merci non transitino lungo le traiettorie privilegiate della Nuova Via della Seta o non siano dirette in via preminente verso quei Paesi che sono stati ammessi a far parte del Club delle Nazioni gradite a Pechino.
Tutto ciò rientra senza dubbio nei piani del lungimirante Xi Jingping che pensiamo proseguirà senza posa nello sforzo di lanciare il brand Cina come una success story antagonista al modello americano sullo scenario globale, sostenibile peraltro senza che la globalizzazione debba per forza mantenere il corso espansivo che ha avuto dagli anni ’90 ad oggi.
Immagine di copertina by Johannes Plenio from Pexels
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